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Fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e mutilazione fraudolenta della propria persona. “La frode in assicurazione”.

By corsisti

Fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e mutilazione fraudolenta della propria persona. “La frode in assicurazione”.

La fattispecie di reato di frode in assicurazione” è disciplinata ai sensi e per gli effetti dell’art. 642 del codice penale.

La norma è posta a tutela dell’integrità patrimoniale delle imprese di assicurazione e della buona fede contrattuale.

L’art. 642 c.p.:  Chiunque, al fine di conseguire per sé o per altri l’indennizzo di una assicurazione o comunque un vantaggio derivante da un contratto di assicurazione, distruggedisperdedeteriora od occulta cose di sua proprietà, falsifica o altera una polizza o la documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di assicurazione è punito con la reclusione da uno a cinque anni.

Alla stessa pena soggiace chi al fine predetto cagiona a se stesso una lesione personale [582] o aggrava le conseguenze della lesione personale prodotta da un infortunio o denuncia un sinistro non accaduto ovvero distrugge, falsifica, altera o precostituisce elementi di prova o documentazione relativi al sinistro. Se il colpevole consegue l’intento la pena è aumentata. Si procede a querela di parte.

Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano anche se il fatto è commesso all’estero, in danno di un assicuratore italiano, che eserciti la sua attività nel territorio dello Stato. Il delitto è punibile a querela della persona offesa.

 

Il soggetto attivo. L’assicurato.

In tema di reati contro il patrimonio, la fattispecie prevista dall’art. 642 c.p., costituisce un’ipotesi speciale di truffa e non integra un reato “proprio” attribuibile esclusivamente al contraente del rapporto assicurativo, ma può essere ravvisata in ogni azione fraudolenta diretta a ledere il patrimonio delle compagnie assicuratrici attraverso la manipolazione illecita del rapporto contrattuale, attuabile anche da soggetti estranei al sinallagma[1].

Parte delle dottrina,  invece, anche in virtù di meno recenti pronunce giurisprudenziali, tiene a qualificare l’art. 642 c.p., come reato proprio, in quanto può essere commesso solamente dall’assicurato.

Esso richiede come presupposto, che tra l’agente e parte offesa, sussista un valido contratto di assicurazione per cui l’azione del primo induca l’assicuratore a risarcirgli il danno[2].

Ove un terzo, estraneo al rapporto assicurativo e all’insaputa dell’assicurato, commetta una simulazione di infortunio al fine di conseguire il prezzo dell’assicurazione risponde di truffa – consumata o tentata – nei confronti dell’assicurato e non già del delitto di cui all’art. 642 c.p., essendo del tutto estraneo al rapporto assicurativo[3].

 

Elemento Oggettivo. La configurabilità del reato.

Il reato di frode in assicurazione si presenta nelle vesti di una norma penale mista del tutto peculiare, essa punisce sotto la sintetica ed unica denominazione di “frode assicurativa”, due diverse ipotesi di illecito penale: il fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e la mutilazione fraudolenta della propria persona.

Questa, prevede nei suoi commi I e II, cinque diverse fattispecie di reato – in particolare, il danneggiamento dei beni assicurati e la falsificazione o alterazione della polizza, nel comma I; la mutilazione fraudolenta della propria persona, la denuncia di un sinistro non avvenuto e la falsificazione o alterazione della documentazione relativi al sinistro, nel comma II – che, ove ricorrano gli estremi fattuali, possono concorrere fra loro[4].

Ai fini della configurabilità del delitto di frode in assicurazione, la nozione di “sinistro”, prevista dal comma II dell’art. 642 c.p., si riferisce non solo all’ipotesi dell’incidente stradale ma a qualsiasi evento pregiudizievole del contratto assicurativo, che fa sorgere in capo a questi il diritto di rivalsa o al risarcimento[5].

Per quanto riguarda, innanzitutto, il reato di fraudolento danneggiamento dei beni assicurati, ai sensi del comma I dell’art. 642 del c.p., esso punisce chi distrugge, disperde, deteriora od occulta cose assicurate di sua proprietà, oppure falsifica o altera una polizza o la documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di assicurazione.

La fattispecie di mutilazione fraudolenta della propria persona, ai sensi del II comma, si configura, invece, in capo al soggetto che cagiona a sé stesso una lesione personale o aggrava le conseguenze della lesione prodotta da un infortunio, oppure denuncia un sinistro non accaduto, o, ancora, distrugge, falsifica, altera o precostituisce degli elementi di prova o la documentazione relativa ad un sinistro.

Entrambe le fattispecie criminose sono, tuttavia, accomunate dal medesimo elemento soggettivo, essendo richiesta la sussistenza, in capo all’agente del dolo specifico, consistente nel fine di conseguire, per sé o per altri, l’indennizzo o, comunque, un vantaggio derivante da un contratto di assicurazione.

Da ciò deriva che, entrambe le ipotesi di reato disciplinate dall’art. 642 del c.p., sono volte a tutelare l’interesse dell’assicuratore a non subire delle diminuzioni patrimoniali pagando degli indennizzi assicurativi non dovuti.

Con riferimento, innanzitutto, all’ipotesi del fraudolento danneggiamento di beni assicurati, la condotta tipica può consistere, in primo luogo, nel distruggere, disperdere, deteriorare od occultare cose di proprietà dello stesso soggetto agente.

In questo caso, dunque, l’oggetto materiale del delitto è rappresentato dalle cose di proprietà dell’agente che siano oggetto di un contratto di assicurazione.

“Considerato che la cosa deve essere di proprietà del soggetto attivo, non è configurabile il reato in esame ma, eventualmente, la truffa, ex art. 640 del c.p., qualora l’agente esplichi la propria condotta criminosa nei confronti di una cosa altrui, da lui assicurata a proprio favore”.

Dunque, all’ipotesi del fraudolento danneggiamento di beni assicurati, l’evento naturalistico è rappresentato dalla distruzione, dalla dispersione, dal deterioramento o dall’occultamento della cosa di proprietà dell’agente. Sempre con riferimento all’ipotesi delineata dal primo comma della norma in esame, la condotta criminosa può, altresì, consistere nella falsificazione o nell’alterazione di una polizza o della documentazione richiesta per la stipula di un contratto di assicurazione[6].

Rispetto alla seconda ipotesi criminosa – c.d. mutilazione fraudolenta della propria persona – consiste, invece, nel produrre << a sé stesso una lesione personale >> ovvero <<nell’aggravare le conseguenze della lesione prodotta dall’infortunio>>.

La norma rende così punibile una lesione che il soggetto provoca a sé stesso, di regola irrilevante dal punto di vista penalistico, per ragioni di opportunità connesse agli scopi presi di mira, ovverosia per conseguire un ingiusto profitto.

Questa peculiare autonomia degli obiettivi di tutela si riflette nella interpretazione del termine <<lesione>>: esso infatti è inteso dalla dottrina tradizionale come mera alterazione fisica prodotta da un fattore traumatico, con la conseguenza di escludere dal suo ambito applicativo tutte le alterazioni funzionali dell’organismo[7].

Per vero, appare, più conforme alla ratio della incriminazione, intendere il termine lesione come sinonimo di malattia, comprensivo quindi di tutte le alterazioni funzionali dell’organismo, sganciando così, l’interpretazione del presupposto tacito della presenza di un fatto violento.

A sua volta, la seconda condotta – quella cioè dell’aggravamento – implica un aumento della gravità della lesione senza che si verifichi il passaggio da una tipologia all’altra di lesione previste dagli artt. 582 e 583 c.p., (lesione lieve, grave, gravissima).

Una ulteriore novità introdotta, poi, nel 2002, concerne la punibilità di chi denuncia un sinistro non avvenuto <<falsità ideologica>> ovvero distrugge, falsifica, altera o precostituisce elementi di prova o documentazione relativi al sinistro <<falsità materiale>>[8].

 

La componentistica psicologica del reato.

L’elemento psicologico non presenta aspetti problematici.

L’agente, l’assicurato, deve avere la consapevolezza della validità del contratto assicurativo, insieme alla coscienza e volontà di tutti gli altri elementi del fatto, cioè: “il dolo specifico, costituito dalle finalità di conseguire per sé o per altri l’indennizzo di una assicurazione o comunque un vantaggio derivante da un contratto di assicurazione, serve a differenza a differenziare la frode in assicurazione dal delitto di truffa[9]”.

 

La consumazione dell’illecito.

Il conseguimento del profitto come circostanza aggravante.

Il reato di frode nelle assicurazioni si ritiene perfezionato nel momento e nel luogo in cui si realizza la singola condotta criminosa[10].

Per la prima ipotesi criminosa descritta all’art. 642 c.p., l’illecito è consumato a prescindere dal conseguimento effettivo dell’indennizzo, quindi a nulla rileva la non avvenuta riscossione del premio dell’assicurazione; per la mutilazione fraudolenta della propria persona, invece, si verifica appena l’agente abbia cagionato a sé stesso una lesione personale, e poi “informato l’assicurazione”.   Il conseguimento dell’intento è considerato come circostanza aggravante[11].

 

Rapporti con altri reati. La procedibilità a querela di parte.

L’ipotesi delittuosa di cui all’art. 642 c.p., si differenzia dal reato di truffa ex art. 640 del codice penale e costituisce un’ipotesi criminosa speciale rispetto alla stessa; nel reato di frode in assicurazione, infatti, sono presenti gli stessi elementi costitutivi caratterizzanti il delitto di truffa, tuttavia, inoltre, come elemento specializzante interviene il fine di tutela del patrimonio dell’assicuratore[12].

Rispetto alla procedibilità dell’azione penale, a differenza degli illeciti civile per cui è sufficiente la denuncia, per il reato di frode in assicurazione, la novella introdotta al secondo comma dell’art. 642 c.p. dall’art. 24 della legge 12 dicembre 2002 n. 273, secondo cui si procede <<a querela di parte>>, si riferisce ad entrambe le forme (semplice o aggravata) in cui il reato può consumarsi, rispettivamente previste dal I e dal II comma[13].

 

La clausola di chiusura del sistema: la salvaguardia del reato commesso all’estero.

Il Legislatore italiano, uniformandosi, nella parte speciale del Codice, con la disciplina ex art. 642, rispetto ai principi generali previsti agli artt. 7 e seguenti con le norme in materia di reato commesso all’estero, al comma III della fattispecie delittuosa in esame, ha sancito la cosiddetta clausola di chiusura del sistema.

Infatti, così è disciplinato: le disposizioni di cui al presente articolo (riferendosi ai sopra illustrati commi I e II), si applicano anche se il fatto è commesso all’estero, in danno di un assicuratore italiano, che eserciti la sua attività nel territorio dello stato. Il delitto è punibile a querela della persona offesa.

In altri termini, l’assicurato, se per conseguire un vantaggio derivante da un contratto di assicurazione, distruggedisperdedeteriora od occulta cose di sua proprietà, falsifica o altera una polizza o la documentazione richiesta per la stipulazione di un contratto di assicurazione, od anche, per il predetto fine, cagiona a se stesso una lesione personale o aggrava le conseguenze della lesione personale prodotta da un infortunio o denuncia un sinistro non accaduto ovvero distrugge, falsifica, altera o precostituisce elementi di prova o documentazione relativi al sinistro, risponderà, in virtù del principio di c.d. extraterritorialità della norma penale, per il reato di frode in assicurazione, anche se commesso oltre il territorio italiano, purché a danno di un assicuratore che operi nel medesimo territorio.

Bibliografia

Natalini, La nuova veste di un reato vecchio: truffa ai danni delle assicurazioni. Analisi degli elementi costitutivi della nuova fattispecie, in Dir. e Giust. 2003.

Fiandaca, Musco, Diritto penale Parte Speciale, Vol. II, Tomo II, I delitti contro il patrimonio, 2015.

Domenico Carcano, Manuale di diritto penale. Parte speciale, 2010.

Cass. Pen., Sez. II,  16 dicembre 2006, n. 41261.

Cass. Pen., Sez. II, 17 dicembre 2013 – 17 gennaio 2014, n. 1856.

Cass. Pen., Sez. II, 26 febbraio 2014 – 28, maggio 2014, n. 21816.

Cass. Pen., Sez. II, n. 24075 del 15 maggio 2017.

Cass. Pen.,Sez. I, n. 51360 del 12 novembre 2018.

Cass. Pen., Sez. II, n. 21816 del 28 maggio 2014.

Cass. Pen., Sez. II, 13 novembre 2003 n. 2506 dicembre 2013.

 

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[1] Cfr. Cass. Pen., Sez. II, 31 ottobre 2019, n. 44581. In tema di reati contro il patrimonio, la fattispecie prevista ex art. 642 c.p., costituisce una ipotesi speciale del delitto di truffa e non integra un reato proprio.

[2] Cfr. Cass. Pen., Sez. II,  16 dicembre 2006, n. 41261. Non risponde del reato di cui all’art. 642 c.p. il soggetto che utilizzi il certificato assicurativo di una vettura ed il relativo contrassegno, entrambi contraffatti, qualora non sussista un valido contratto assicurativo tra il soggetto agente e la Compagnia. (Ha peraltro precisato la Corte che anche le ulteriori fattispecie relative alle condotte di falso aventi ad oggetto la polizza assicurativa, la documentazione destinata alla sua stipulazione, la falsa denunzia di infortunio o la falsificazione degli elementi destinati a provare un sinistro — aggiunte dalla L. n. 273 del 2002 — presuppongono che tra le parti sussista, o sia sussistito, un rapporto contrattuale).

[3] Cfr. Natalini, La nuova veste di un reato vecchio: truffa ai danni delle assicurazioni. Analisi degli elementi costitutivi della nuova fattispecie, in Dir. e Giust. 2003, pag. 85.

[4] Cfr. Cass. Pen., Sez. II, 17 dicembre 2013 – 17 gennaio 2014, n. 1856.

[5] Cfr. Cass. Pen., Sez. II, 26 febbraio 2014 – 28 maggio 2014, n. 21816.

[6] Cfr. Fiandaca, Musco, Diritto penale Parte Speciale, Vol. II, Tomo II, I delitti contro il patrimonio, 2015, pag. 303. L’oggetto materiale della condotta è costituito da <<cose di proprietà del soggetto attivo>>, coperte ovviamente da un regolare e valido contratto di assicurazione. Il contratto di assicurazione viene per lo più considerato come un presupposto del reato, ma sembra più corretto ritenere che si tratti di una semplice qualifica dell’oggetto materiale di cui l’agente dovrà rappresentarsi l’esistenza. Il reato esula se la condotta ha ad oggetto una cosa altrui assicurata dall’agente. In simili ipotesi – in cui si fa rientrare anche la denuncia di cose appartenenti alla società per azioni da parte dell’amministratore delegato – si verte in materia di truffa, non già di frode in assicurazione.

[7] Cfr. Domenico Carcano, Manuale di diritto penale. Parte speciale, 2010, pag. 1124. In relazione, invece, alla fattispecie di mutilazione fraudolenta della propria persona, la condotta tipica può consistere, innanzitutto, negli atti con cui l’agente provochi a sé stesso una lesione personale, o con cui aggravi le conseguenze di una lesione personale prodotta da un infortunio. Per “infortunio” si intende l’evento dovuto ad una causa violenta ed esterna che provochi delle lesioni personali. Con l’espressione “lesione personale” si fa, altresì, riferimento a qualsiasi lesione dello stato psicosomatico di un individuo, la quale si concretizzi in una modificazione anatomica, oppure in una mera compromissione funzionale.

In questa prima ipotesi l’oggetto materiale del reato è rappresentato dalla persona dell’agente e l’evento naturalistico è costituito dalla procurata lesione personale o dal suo procurato aggravamento.

[8] Cfr., Fiandaca, Musco, cit. pag. 304, Ai sensi dell’ultimo periodo del secondo comma, il reato di frode nelle assicurazioni risulta aggravato qualora il colpevole realizzi effettivamente il proprio intento di conseguire, per sé o per altri, l’indennizzo di un’assicurazione o, comunque, un vantaggio derivante da un contratto di assicurazione da lui stipulato.

[9] Cfr., Fiandaca, Musco, cit. pag. 304. La precedente formulazione normativa prevedeva la sola finalità di conseguire il prezzo dell’assicurazione (<<prezzo>>, ovviamente era inteso in senso atecnico, equivalente cioè ad indennità assicurativa”, poiché l’introduzione anche dalla finalità di conseguire indebitamente comunque un vantaggio derivante da un contratto di assicurazione serve ad eliminare pericolosi vuoti di tutela, come nel caso di chi ponga in essere una delle descritte condotte fraudolente non già per percepire direttamente un indennizzo assicurativo, bensì per pagare un premio minore.

[10]Cfr. Cass. Pen.,Sez. I, 12 novembre 2018, n. 51360. La competenza territoriale in relazione al reato di cui all’art. 642 cod. pen. si determina nel luogo in cui la richiesta di risarcimento, quale atto unilaterale recettizio, giunge a conoscenza dell’effettivo titolare del diritto patrimoniale compromesso e, quindi, presso la sede legale della compagnia assicuratrice, soggetto giuridico legittimato a disporre di tale diritto. (In motivazione, la Corte ha osservato che presso tale sede sono presenti gli organi o comparti della struttura societaria dotati di poteri valutativi e decisionali in merito all’oggetto della richiesta risarcitoria).

[11] Cfr. Cass. Pen., Sez. II, 28 maggio 2014, n. 21816. Ai fini della configurabilità del reato di frode in assicurazione, la nozione di “sinistro”, prevista dal secondo comma dell’art. 642 c.p. si riferisce non solo all’ipotesi dell’incidente stradale ma a qualsiasi evento pregiudizievole subito dal fruitore del contratto assicurativo, che fa sorgere in capo a questi il diritto di rivalsa o al risarcimento. (Fattispecie, nella quale l’imputato, regolarmente assicurato, aveva denunciato di aver subito la – in realtà mai accaduta – rapina di un’autovettura).

[12] Cfr. Cass. Pen., Sez. II, 13 novembre 2013- dicembre 2013, n. 2506. L’ipotesi delittuosa di cui all’art. 642 c.p., si differenzia da quella di cui all’art. 640 dello stesso codice; sotto il profilo soggettivo per il contenuto specifico del fine dell’ingiusto profitto che la connota: <<fine di conseguire…il prezzo di un’assicurazione contro infortuni>>, sotto il profilo oggettivo, per il contenuto, anch’esso specifico, dell’azione del soggetto attivo del reato: distruzione, dispersione, deterioramento od occultamento di cose proprie.

[13] Cfr. Cass. Pen., Sez. II, 15 maggio 2017, n. 24075. In tema delitto di denuncia di sinistro non accaduto punito dall’art. 642, comma secondo, cod. pen, il diritto di querela spetta sia alla Compagnia assicuratrice che gestisce il sinistro, sia a quella debitrice, perché entrambe, in quanto parti direttamente coinvolte, seppur con ruoli diversi, nella richiesta di risarcimento del danno, hanno interesse alla corretta gestione del sinistro e a non vedere depauperato il proprio patrimonio da false denunce.

Elaborato scientifico realizzato dal dott. Fabio Ucciero.

Avv. p. del Foro di Napoli Nord – Penalista.

Laurea Magistrale in Giurisprudenza conseguita presso l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli” ex SUN Seconda Università degli Studi di Napoli – Anno Accademico 2015/16.

Tesi in Diritto Processuale Penale – Ch.ma Prof.sa Teresa Bene – dal Titolo La sospensione del procedimento con messa alla prova.

E’ autore/coautore di contributi in materia penale e processuale penale, su riviste e opere collettanee, fra cui da ultimo “Revenge Porn. La nuova frontiera del penale. – Diffusione Illecita di immagini o video sessualmente espliciti”.

IL DIRITTO AD UNA MORTE, NON SOLO AD UNA VITA, DIGNITOSA

By corsisti

IL DIRITTO AD UNA MORTE, NON SOLO AD UNA VITA, DIGNITOSA

La vita merita la stessa tutela anche quando è solo più la “tortura di dover rimanere in vita”?

 

Il diritto ad una vita dignitosa dovrebbe essere tutelato esattamente come il corrispettivo diritto ad una morte dignitosa. Ciò malgrado in Italia, e non solo, così non è.

Negli ultimi anni sono stati fatti rilevanti progressi su questo fronte che non vanno minimizzati, tuttavia il diritto alla morte non ha ancora la tutela che meriterebbe.

 

IL CODICE ROCCO

Le origini di tale problema non andrebbero esclusivamente ricercate nella religione del nostro paese o ancor più nel “potere” della Chiesa, ma molto più semplicemente all’interno del nostro codice penale.

Ricordiamo bene, un codice penale del 1930[1], dunque originatosi in piena epoca fascista e pertanto contenente tutt’oggi un’ideologia di quel tempo e, come tale, non più conciliabile con i tempi attuali e soprattutto con i progressi medico-scientifici che sono stati fatti negli anni e che non potevano essere assolutamente concepiti o previsti ai tempi in cui il codice veniva redatto.

Il nostro codice penale prevede tutt’oggi due reati che impediscono, in determinati casi di fine vita, a chiunque (compresi medici e professionisti sanitari) di aiutare il paziente ad andarsene in modo indolore laddove non vi siano più né possibilità alcune di guarigione, né possibilità di poter stare in vita senza soffrire.

Trattasi del reato di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), secondo il quale: “chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni.

Non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61.

Si applicano le disposizioni relative all’omicidio [575-577] se il fatto è commesso:

1) contro una persona minore degli anni diciotto;

2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti;

3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”.

e del reato di istigazione al suicidio, ex art. 580 c.p., ai sensi del quale: “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima [583].

Le pene sono aumentate [64] se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità d’intendere o di volere [85], si applicano le disposizioni relative all’omicidio”.

Risulta così facile intendere come tali reati di fatto impediscano, o comunque distolgano, il medico ben intenzionato che, in linea con i principi della professione medica, desidererebbe porre fine alle sofferenze del impaziente ormai dichiarato inguaribile, ancor più a fronte della richiesta esplicita del medesimo.

Oltre al già complesso e delicato fenomeno della medicina difensiva -odiernamente attenuato grazie alla recente legge Gelli-Bianco[2] in sostituzione del precedente Decreto Balduzzi (vedesi l’obbligo assicurativo in capo al medico, la responsabilità extra contrattuale del professionista e le ulteriori innovazioni apportate dalla normativa)- sul medico grava comunque il costante rischio di incorrere in denunce di rilievo penale che sorpassa la mera responsabilità da colpa grave per imperizia e approda in reati ut supra citati.

 

IL BENE VITA

La ratio sottesa all’esistenza di questi due reati appena indicati è appunto da ricercarsi nell’ideologia passata, seppure non troppo, che si aveva del bene vita.

Con ciò non si vuole denigrare la sussistenza dei reati menzionati che è sicuramente fondamentale per la tutela del bene vita, si vuole tuttavia dare ad intendere che talvolta la loro applicazione lede anziché tutelare il bene giuridico che la norma intenderebbe invero difendere.

Il bene vita, inteso quale diritto ad una vita dignitosa e alla salute, è per lo più sempre stato concepito come un diritto sociale, quasi indisponibile al singolo individuo. Vedesi art. 32 Cost, che definisce la salute quale “interesse della collettività”.

Una sorta di dovere morale di non ledere la propria esistenza, come segno di rispetto per la società.

Ovviamente è una concezione fortemente ancorata alla religione e all’antichità, tuttavia presenta le sue ripercussione anche nell’ambito codicistico odierno.

Tale concezione sociale di un bene che dovrebbe essere maggiormente personale e come tale disponibile al singolo, trova il culmine all’art 5 c.c. secondo il quale: “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume

Tale norma ha protratto negli anni infiniti interrogativi. Si tratta infatti di un veto con forti ripercussione sulla vita di tanti cittadini.

Attualmente passi avanti sono stati fatti grazie ad una giurisprudenza che ha sovente “tappezzato” i forti vuoti normativi esistenti, cercando di stare al passo con le innovazioni mediche e tecnologiche.

Sono infatti possibili oggetti di disposizione del proprio corpo sia le parti del corpo riproducibili (es. sangue, sperma, midollo osseo, etc.) sia quelle non riproducibili (es. rene, fegato, cornea, cuore, ecc.), mediante appunto il trapianto di organi.

Si è arrivati a permettere la disposizione del proprio corpo sia per la procreazione medicalmente assistita sia per la domanda di mutamento del proprio sesso in caso di transessualità.

Si precisa, seppur si potrebbe dare per assodato, che deve sempre trattarsi di atti dispositivi liberi e gratuiti, non essendo ammessa alcun tipo di onerosità in merito.

Si è oggi arrivati talvolta anche ad importanti principi di diritto, grazie ai quali si è iniziato a vedere il diritto alla salute, non solo quale tutela dell’integrità del nostro corpo fisico, bensì quale tutela anche dell’integrità psichica e psicologica del soggetto.

 

IL DIRITTO ALLA SALUTE

Il diritto alla salute, è tutelato dalla nostra Costituzione all’art. 32 Cost. ai sensi del quale: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.”

Con il tempo abbiamo visto essersi ampliato il concetto di “diritto alla salute”.

La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità è arrivata a definirlo quale stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non più come mera assenza di malattie e/o infermità fisiche/psichiche.

Così come il diritto alla salute è oggi fortemente valorizzato e tutelato, altrettanto dovrebbe farsi per il diritto alla non salute, ossia una tutela piena di coloro che non sono in condizioni di salute.

Sempre la nostra Costituzione, ai sensi degli artt. 2[3] e 13[4] Cost, riconosce e garantisce quali diritti inviolabili dell’uomo la libertà personale, intesa come libera, ragionata e consapevole scelta di non godere del bene salute.

Sul punto interviene inoltre la Corte Costituzionale per affermare che tale scelta relativa il non godere del bene-salute, è espressione dei diritti di libertà e di dignità umana, per cui va rispettata anche laddove determini un pericolo di vita o un danno per la salute.[5]

Ciò dovrebbe essere un caposaldo anche per l’autodeterminazione terapeutica, ma come avremo modo di appurare, se a livello teorico la questione pare di semplice risoluzione, innanzi determinati casi concreti risulta ben più complessa.

 

IL CONSENSO INFORMATO

Va precisato che essenziale ed imprescindibile presupposto alla base di ogni intervento è sempre il consenso informato del paziente.

Un consenso che necessità di essere espresso da una persona che sia in uno stato di capacità di intendere e di volere e sia altresì stata pienamente resa consapevole delle proprie condizioni di salute, delle possibili cure e delle concrete aspettative di vita.

Come è da intendere, tutto questo può diventare un grosso problema, laddove il paziente non è più in grado di intendere o volere, o più semplicemente non ha la possibilità di esprimere il proprio volere per via delle condizioni di salute in cui versa (vedremo il caso di Eluana Englaro).

Tali circostanze di “ultimo stadio” sono per lo più attenuate dalle note cure palliative o terapia del dolore[6], tuttavia non sempre sufficienti.

La legge 38 del 15 marzo 2010 tutela il diritto del cittadino ad accedere alle Cure Palliative e alla Terapia del dolore.

Una precisazione va fatta, la legge italiana ostacola il diritto a una morte dignitosa solo in determinati casi e non in tutti ovviamente; ciò dipende dalle condizioni del paziente che usualmente sono diverse da caso a caso.

Tuttavia bastano questi pochi casi di pazienti per rendere l’accesso ad una morte dignitosa un discorso tristemente economico in cui pochi posso economicamente, e talvolta anche fisicamente, far fronte ad un viaggio al fine di accedere a cliniche svizzere o di altri paesi, vedi “Dignitas”[7] e non solo.

 

IN EUROPA

In Europa attualmente la situazione è la seguente:

  • In Gran Bretagna, il suicidio assistito è autorizzato in casi estremi;
  • In Svezia, l’eutanasia passiva è legale dal 2010;
  • In Olanda, l’eutanasia e il suicidio assistito legali dal 2001;
  • In Lussemburgo, l’eutanasia è legale dal 2009 su richiesta del malato;
  • In Germania, l’eutanasia passiva è legale dal 2015;
  • In Svizzera, è legale il suicidio assistito;
  • In Belgio, l’eutanasia è legale dal 2002 e dal 2014 anche nei confronti dei minori;
  • In Francia, è parzialmente ammessa l’eutanasia passiva;
  • In Spana, sono ammesse l’eutanasia passiva e il suicidio assistito.[8]

 

EUTANASIA ATTIVA, EUTANSIA PASSIVA e SUICIDIO ASSISTITO

Arrivati a questo punto, risulta indispensabile una breve disamina dei tre interventi in ambito di fine vita, cosa li accomuna e cosa li distingue.

  • Trattasi di eutanasia attiva, ossia il livello più intenso di intervento, quando il decesso viene provocato mediante la somministrazione che determina la morte.
  • L’eutanasia passiva, o più correttamente interruzione dei trattamenti sanitari, consiste nel rifiuto dei trattamenti sanitari, compresi quelli salva vita, fra i quali sono compresi la nutrizione e l’idratazione artificiale.
  • Infine il suicidio assistito consiste in un atto autonomo che il paziente mette in atto, grazie all’aiuto tecnico di un medico il quale però non interviene sul paziente (vedremo il caso di Fabiano Antoniani, meglio noto come Dj. Fabo).

 

IL CASO WELBY

Per meglio comprendere la storia e gli sviluppi del diritto in ambito di fine vita, risulta utile approcciare ai diversi casi che negli anni hanno fatto sì che lunghi passi avanti fossero fatti in materia giurisprudenziale e talvolta persino legislativa (vedi L. 219/17).

Il caso di Piergiorgio Welby può considerarsi un apripista sul fronte della lunga, tortuosa e non ancora conclusasi strada per la tutela del diritto a morire.

Grazie alla determinazione del Sig. Welby, si è riusciti per la prima volta a dare una rilevanza concreta ed effettiva a quello che è il consenso informato di un paziente in condizioni di fine vita.

La moglie, Mina Welby è tutt’oggi attiva in prima linea, grazie anche all’Associazione Luca Coscioni[9], per lottare e difendere tale diritto anche mediante la disobbedienza civile[10] che ha già visto protagonista prima Marco Cappato, imputato ed assolto per il caso Dj Fabo. Ora nuovamente Cappato e Mina Welby imputati ed assolti in primo grado per il caso Davide Trenini.

Il fatto che ci occupa riguarda Piergiorgio Welby, uomo affetto da un gravissimo stato morboso degenerativo, clinicamente diagnosticato quale “distrofia fascio-scapolo-omerale”.

La sua sopravvivenza era assicurata esclusivamente per mezzo del respiratore automatico al quale era stato collegato sin dall’anno 1997.

I trattamenti sanitari praticati sulla sua persona non erano in grado di arrestare in alcun modo il decorso della malattia, ma semplicemente prolungavano le funzioni essenziali alla sopravvivenza biologica e il gravissimo stato patologico in cui versava.

Welby, in considerazione del suo grave e sofferto stato di malattia, in fase irreversibilmente terminale, dopo essere stato debitamente informato dai propri medici in ordine ai vari stadi di evoluzione della sua patologia, nonché in merito ai trattamenti sanitari che gli venivano somministrati, chiedeva al medico dal quale era professionalmente assistito, di non essere ulteriormente sottoposto alle terapie di sostentamento che erano in atto e di ricevere assistenza solamente per lenire le sofferenze fisiche.

In particolare, Welby chiedeva che si procedesse al distacco dell’apparecchio di ventilazione, sotto sedazione.

Tuttavia, il medico opponeva un rifiuto a tale richiesta, assumendo di non poter dar seguito alla volontà espressa, in considerazione degli obblighi ai quali si riteneva astretto.

Di talché, dopo una lettera al Presidente della Repubblica, Welby si vedeva costretto a rivolgersi alla magistratura, attraverso un ricorso d’urgenza, ex art. 669 ter e 700 c.p.c., volto ad ottenere il distacco del respiratore artificiale sotto sedazione terminale.

Nel ricorso i legali di Welby basavano la richiesta di poter apporre un rifiuto alle cure sulla base dell’articolo 32 della Costituzione italiana e del diritto di autodeterminazione dell’individuo riconosciuto ai sensi dell’art. 13 della Carta Costituzionale.

Il giudice, con ordinanza depositata il 16 dicembre 2006, dichiarava il ricorso di Welby inammissibile, riconoscendo tuttavia l’esistenza di un diritto soggettivo garantito dall’articolo 32 della Costituzione tale per cui è legittimo richiedere l’interruzione della terapia medica, pur ritenendolo privo di tutela giuridica.

Mancava, secondo il giudice, nel sistema giuridico italiano una normativa specifica atta a regolamentare le decisioni di fine vita in un contesto clinico come quello del caso di specie.

Si iniziò, così, a porre l’attenzione sul vuoto normativo che sussisteva in merito.

La Procura della Repubblica di Roma, titolare di azione diretta nel procedimento civile instaurato da Piergiorgio Welby, proponeva reclamo avverso la decisione del Tribunale civile di Roma perché “affetta da una palese contraddizione”.

Ed invero, secondo la Procura “il vizio logico dell’ordinanza” consisteva nel fatto che il giudice “dalla premessa (corretta) secondo cui nel nostro ordinamento esiste un divieto di accanimento terapeutico ed un correlativo diritto di pretenderne la cessazione, perviene a una conclusione (del tutto erronea) per cui questo diritto non può essere tutelato a causa della mancata definizione, in sede normativa, delle sue modalità attuative”.

A tal riguardo la Procura affermava “il diritto soggettivo o esiste o non esiste: se esiste, non potrà non essere tutelato, incorrendo altrimenti l’organo di giustizia in un inammissibile non liquet, con effetto di lasciar senza risposta una pretesa, giuridicamente riconosciuta alla stregua di fondamentali principi indicati dallo stesso Giudice nel provvedimento impugnato”.

Dispone in tal senso l’art. 2 Cost. (“tutti possono agire in giudizio per la tutela dei diritti e degli interessi legittimi”)

Peraltro, sovente è lo stesso legislatore a lasciare alla giurisprudenza la specificazione del diritto, soprattutto con riguardo alla protezione di beni soggetti a cambiamenti dipendenti da fattori esterni, per la capacità della giurisprudenza di adattare alle situazioni concrete ai principi di base rinvenibili nella Costituzione o nei principi fondamentali, ovvero nei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario o dagli obblighi internazionali”.

Nel frattempo Welby, certo della meritevole tutela che spettava al proprio diritto di autodeterminazione e, data l’impossibilità di staccare il respiratore con l’assenso del giudice, decideva di proseguire nel suo intento, avendo inoltre trovato un medico anestesista disponibile a venir incontro alle sue esigenze.

Difatti, il dott. Mario Riccio si recava presso l’abitazione di Welby il giorno 18 dicembre 2006 per accertare l’evoluzione della patologia e per raccogliere la volontà del paziente che confermava, ancora una volta, di voler essere sedato e staccato dal respiratore artificiale.

Due giorni dopo il medico chiedeva a Welby, per l’ennesima ed ultima volta, la conferma della sua volontà, quindi, ottenuta tale conferma, procedeva prima alla sedazione del paziente e, subito dopo, al distacco del ventilatore automatico.

La morte, come afferma il referto medico-legale, sopraggiungeva nell’arco di mezz’ora, per arresto cardiocircolatorio dovuto ad una irreversibile insufficienza respiratoria da attribuire all’impossibilità di Welby di accedere alla ventilazione meccanica in modo autonomo, a causa della gravissima distrofia muscolare cui lo stesso era affetto.

È proprio dopo la morte di Welby che si apre la fase cruciale relativa al riconoscimento del diritto in questione.

Attesa la legislazione esaminata e il parere contrario alla magistratura, tutto faceva ritenere che il dott. Riccio sarebbe stato condannato.

Tuttavia, il primo procedimento che si apriva sulla condotta del medico è quello dell’Ordine dei medici di Cremona a cui Riccio appartiene e gli elementi presi in considerazione erano due:

  • da un lato la volontà “chiara, decisa e non equivocabile” del paziente “perfettamente in grado di intendere e volere e di esprimersi” e “pienamente consapevole della conseguenza del sopraggiungere della morte”
  • dall’altro il fatto che l’anestesista “non ha somministrato farmaci o altre sostanze atte a determinare la morte” e che la sedazione terminale è risultata “per posologia di farmaci, modalità e tempi di somministrazione, in linea con i normali protocolli”.[11]

In questo caso il fatto che Welby fosse pienamente capace di intendere e di volere, oltre al il fatto che le sue condizioni di salute hanno permesso un intervento legittimo del medico senza necessitare di somministrazione di farmaci (eutanasia attiva), ma semplicemente di distacco dell’apparecchio di respirazione (interruzione dei trattamenti sanitari) e conseguente sedazione al fine di evitare dolore, sono due presupposti che hanno permesso un lento ma benevolo lieto fine.

Tuttavia le condizioni dei pazienti non sono sempre le medesime e talvolta un tale tipo di intervento non può essere fattibile.

 

IL CASO ENGLARO

Il caso di Eluana Englaro è altrettanto rilevante dal momento che pone un secondo baluardo della storia sul diritto alla dignità del fine vita.

Ossia la rilevanza delle volontà precedentemente espresse da una persona che successivamente non è più cosciente e, pertanto, incapace di esprimerle o rinnovarle di persona.

Eluana Englaro, a ventuno anni, a seguito di un grave incidente stradale verificatosi in data 18 novembre 1992, si trovava ridotta in stato di coma irreversibile e permanente, definito sovente in letteratura medicina “stato vegetativo permanente”.

Eluana Englaro, nutrita con sondino nasogastrico, respirava in maniera del tutto autonoma, tuttavia non era capace di intendere e volere.

Dopo un anno dall’incidente, la regione superiore del cervello di Eluana andava incontro ad una degenerazione definitiva. I medici non lasciavano alcuna speranza di ripresa.

Dopo circa quattro anni dall’incidente, Eluana veniva dichiarata interdetta per assoluta incapacità e, con sentenza del Tribunale di Lecco in data 19 dicembre 1996, viene nominato tutore il padre, Beppino Englaro.

Qui ha inizio la lotta di un padre che desidera tutelare non più la vita di sua figlia ormai venuta meno, bensì la dignità della medesima.

Dopo altri tre anni, nel 1999, inizia la lunga battaglia legale di Beppino Englaro per poter sospendere l’alimentazione artificiale alla figlia.

Il caso, però, è più complesso di quello Welby, poiché Eluana non aveva la possibilità di esprimere la propria volontà rendendo così impraticabile l’applicazione dell’art. 32 Cost.

Siffatte argomentazioni, inducono il Tribunale di Lecco a respingere la richiesta di Beppino Englaro di lasciar morire la figlia.

Il vero quesito posto dal caso Englaro è se il ‘valore’ presidiato dalla Carta costituzionale sia la vita in sé o, piuttosto, la ‘dignità’ dell’esistenza intesa come condizione umana non degradante ma capace di consentire alla persona di vivere senza una sofferenza insopportabile che possa tradursi in una vera e propria condanna, tortura.

Quello che preme infatti valorizzare è che la vita deve essere tutelata in ogni suo aspetto fino alla fine qualora essa sia meritevole di essere vissuta, ma non necessita della medesima tutela una vita ormai trasformatasi in una concreta tortura di dover rimanere in vita.

Beppino Englaro, certo che sua figlia non avrebbe voluto vivere in quello stato vegetativo, nel 2003 presenta nuovamente la richiesta di sospensione dell’alimentazione artificiale che tuttavia viene nuovamente respinta prima dal Tribunale e poi dalla Corte d’Appello.

L’uomo, continuando a sostenere che il coma irreversibile fosse lesivo della dignità della figlia mentre la morte poteva restituirgliela, impugna la sentenza davanti la Corte di Cassazione.

Nel 2007 si pronuncia, dunque, la Corte di Cassazione tramite la sentenza numero 21748/2007 con la quale annulla il provvedimento della Corte d’Appello e rinvia ad altra sezione della Corte d’Appello di Milano, sostenendo che il giudice può autorizzare l’interruzione delle cure o dell’alimentazione artificiale in presenza di due circostanze concorrenti:[12]

  • in primo luogo, occorre che “la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno”.
  • In secondo luogo, la Corte sostiene che è necessario, altresì “che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della volontà del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona”.

 

E’ importante sottolineare che – ai fini di un’analisi giuridica – la volontà diviene, in ogni caso, elemento imprescindibile. E’ infatti l’elemento volitivo che collega il caso Welby a quello Englaro, in quest’ultimo compiendo però un notevole passo avanti, atteso che la Cassazione si riferisce ad un paziente incapace di intendere e volere le cui volontà devono essere desunte dallo stile di vita condotto in precedenza dal paziente o dalle sue eventuali dichiarazioni.

Non è rilevante se sia dignitoso o meno vivere in quelle condizioni, giacché ciò rientra irrimediabilmente in convinzioni personali, quello che rileva è, ancora una volta, la volontà del paziente, desumibile, secondo la Corte, dalla personalità dello stesso, chiamando in causa, perciò, coloro che conoscevano il paziente. Proprio come è avvenuto nel caso Englaro, in cui non soltanto i familiari della ragazza hanno testimoniato l’inequivocabile volontà di Eluana di lasciarsi morire qualora avesse riversato in siffatte condizioni, ma anche coloro che la conoscevano hanno portato alla luce commenti e convinzioni espresse dalla ragazza allorquando a cadere in coma irreversibile era stata una persona di sua conoscenza.

Il 9 luglio 2008 la Corte di Appello di Milano riesamina la vicenda alla luce della rimessione da parte della Suprema Corte e autorizza il padre, Beppino Englaro, in qualità di tutore, ad interrompere il trattamento di idratazione e alimentazione forzata che mantiene in vita la figlia Eluana.

Non è finita qui, il 16 luglio 2008 Camera e Senato sollevano un conflitto di attribuzione contro la Cassazione, 
ritenendo che la sentenza dell’ottobre 2007 integrasse “un atto sostanzialmente legislativo, innovativo 
dell’ordinamento normativo vigente”, compito che spetta solo al legislatore.

A dirimere il conflitto viene chiamata la Corte costituzionale, la quale nell’ottobre 2008 si pronuncia a favore della Cassazione e della Corte d’Appello di Milano, ritenendo che la sentenza in questione non fosse affatto innovativa di un ordinamento basato su una Costituzione che garantisce il diritto di rifiutare le cure mediche e il rispetto della volontà del singolo.[13]

 

 

IL CASO DJ FABO

I casi rilevanti sono innumerevoli, si cerca tuttavia di analizzare solo quelli più significativi per quando concerne le innovazioni giurisprudenziali e i passi avanti fatti per la tutela del diritto a morire dignitosamente.

Il caso Dj Fabo è stato decisivo nell’aprire gli occhi al popolo italiano sulle necessità di una regolamentazione che disciplinasse il fine vita in ambito clinico e ciò è stato possibile proprio grazie all’Associazione Luca Coscioni e nello specifico all’intervento personale di Marco Cappato[14].

 

“Piuttosto che essere assolto per un aiuto giudicato irrilevante, mentre è stato determinante, preferirei essere condannato. Altro sarebbe essere assolto per incostituzionalità del reato. Perché altrimenti si accetterebbe che solo chi è in grado di raggiungere la Svizzera può essere libero di scegliere.”[15]

 

Fabiano Antoniani è un quarantenne che si è visto stravolgere l’esistenza nella sua totalità da quando un incidente stradale alle porte di Milano lo ha costretto a vivere immobilizzato a letto.

Tutto si è spezzato in poco tempo, la salute, la vista, la mobilità, le passioni e i sogni non ancora realizzati, fino al punto in cui è venuta meno anche lei, la Speranza.

Ironico, divertente, con tanta voglia di vivere, era ragazzo vivace e un po’ ribelle, con occhi pieni di allegria. Lui che fermo non ci sapeva stare. Super tatuato ed eclettico. Fabo era questo.

Dj scatenato che faceva ballare dietro una consolle migliaia di persone riempiendo le piste con la sua musica. La sua passione vinceva su tutto il resto. Assicuratore, geometra, broker. Ne aveva provati tanti di lavori. Poi le corse in motocross, il team di Motard e il cimentarsi in sport tra i più svariati.

Ma era il suonare che lo rendeva felice: «Mi permetteva di dare un tocco magico alla mia vita», come racconta a “Le Iene” e nel video pubblicato su Eutanasia Legale per portare a termine il suo ultimo desiderio di morire, rivolgendosi all’associazione Luca Coscioni da anni impegnata per la libertà di ricerca scientifica e per i diritti civili dei cittadini in ogni fase della loro vita.

Insieme all’India, paese che lo ha accolto per cinque anni, ospitato e fatto sentire a casa.

Momenti felici vissuti tutti insieme alla sua compagna, Valeria Imbrogno, psicologa con una specializzazione in Criminologia e boxe- attendista per passione. Una grande storia di amicizia prima e di amore dopo.

«Io piacevo alla sua amica. Lei le ha praticamente ciulato il ragazzo», racconta con quella ironia che non l’ha mai abbandonato. Una donna con cui ha condiviso tutto, dai viaggi alle serate, alle amicizie, che lo ha seguito in tutti i suoi spostamenti e scelte e che lo ha aiutato durante tutta la terapia.

«Divento matto a non fare le cose banali cui la gente normale non pensa nemmeno», diceva. «Io quantifico la vita in qualità e non in quantità».

Lui che la speranza non l’ha mai persa e che non ha mai smesso di lottare finché i dolori troppo forti sono diventati insopportabili. «Ora mi sento in gabbia. Non sono depresso. Ho provato tante terapie che sono state vane. Ho bisogno di aiuto». [16]

Fabiano, dopo anni di dolori fisici e tentativi vani di guarigione, inizia consapevolmente, razionalmente e determinatamente a desidera di morire.

Lui aveva deciso che la sua vita non era più dignitosa secondo quelli che egli reputava i canoni di una vita degna di essere vissuta.

La sua esistenza era invero divenuta una tortura a dover rimanere in vita.

Quello che è però importante non dimenticare e non banalizzare è il fatto che il vuoto normativo italiano in ambito di fine vita, costringe i pazienti a rischiare di morire soffrendo, pur di morire.

Soffrendo sì, perché in Italia l’unico modo in cui Fabiano sarebbe forse riuscito legalmente ad andarsene sarebbe stato quasi sicuramente corrispondente all’andare in contro ad una morte per soffocamento.

Inutile ribadire che soffocare rientra in una di quelle esperienza di vita che nessuno vorrebbe mai fare.

Questo il punto focale anche della questione, Fabiano è stato costretto a cercare e a rivolgersi a qualcuno che potesse aiutarlo, appunto l’Associazione Coscioni e nella specifico Marco Cappato, è stato costretto a svolgere una lunga e costosa burocrazia per poter accedere ad una clinica in Svizzera, è stato costretto ad affrontare uno scomodo e pericolosissimo, per le sue condizioni di salute ovviamente, viaggio fino in Svizzera, dove è stato costretto a premere, solo per mezzo della sua bocca, un pulsante[17] che gli permettesse di esaudire il suo desiderio ed è stato costretto a fare ciò con la Paura dentro che qualcosa andasse storto, che non avesse la forza fisica sufficiente per premere quel pulsante, con la paura consequenziale di soffrire.

 

LA QUESTIONE DI COSTITUZIONALITA’

Si è aperto così l’8 novembre 2017 il processo a Marco Cappato[18], auto-denunciatosi e dunque imputato per istigazione e aiuto al suicidio ex art. 580 c.p. dal momento che aveva aiutato Fabiano a raggiungere la Svizzera ove ha ottenuto il suicidio assistito.

Il 14 febbraio 2018 si è parzialmente concluso con l’assoluzione per la parte che lo vedeva imputato di istigazione al suicidio[19].

Per la parte di aiuto al suicidio, invece, la Corte di Assise di Milano ha emesso una ordinanza di remissione alla Consulta per il giudizio di costituzionalità dell’art. 580 del codice penale.[20]

La Corte Costituzionale riunitasi il 23 ottobre 2018 per discutere la questione di costituzionalità si è pronunciata il giorno seguente (comunicato stampa della Corte) sospendendo la decisione e riconvocandosi il 24 settembre 2019. Nelle more ha invitato il Parlamento ad intervenire al fine di garantire adeguate tutele legislative corrispondenti al dettato costituzionale.

Il Parlamento, però, è rimasto inerte.

Senza un intervento della Corte, dunque, stante l’inerzia del legislatore, Marco Cappato ha rischiato dai 5 ai 12 anni di carcere per l’aiuto prestato a Dj Fabo.

Con il dispositivo annunciato a seguito della udienza del 24 settembre 2019 la Consulta ha deciso che la condotta di chi aiuta al suicidio “non è punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni”.

In particolare non è punibile “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli” (Comunicato Ufficio Stampa Consulta, 25 settembre 2019).[21]

Con la decisione assunta il 25 settembre 2019 e le motivazioni pubblicate il 22 novembre 2019 la Corte ha dichiarato illegittimo l’art. 580 del codice penale nella parte in cui non esclude la punibilità a determinate condizioni (di fatto in tutto simili alla condizione di Dj Fabo).

Le motivazioni della sentenza della Corte costituzionale consegnano alla Corte di Assise di Milano la decisione di finale.

L’ultimo atto si è svolto lunedì 23 dicembre 2019 quando la Corte d’Assise di Milano ha definitivamente assolto Marco Cappato perché il fatto non sussiste.[22]

Ma la battaglia per l’eutanasia legale non è assolutamente finita.

Seppure vi è stato uno storico e grandissimo passo avanti nell’ambito del fine vita, rimangono ancora non coperti dalla sentenza della Consulta tutti quei casi diversi, in cui, per esempio, la persona non sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno di vitale. È il caso del processo nei confronti di Marco Cappato e Mina Welby per la morte in Svizzera di Davide Trentini.

 

IL CASO TRENTINI

Conosciamo ora la storia di Dj Fabo e la vicenda processuale che ha visto Marco Cappato imputato e assolto per averlo aiutato a raggiungere la Svizzera dove ha ottenuto l’accesso al suicidio assistito. Come poc’anzi accennato, la storia di Fabiano ha aperto uno spiraglio, ma non ha dato una garanzia normativa a tutte le persone che si possono trovare in situazioni affini o simili, bensì ha permesso tale garanzia solo a coloro che si possono trovare nella sua stessa condizione di salute.

Vediamo in ultimo la storia analoga, ma non identica, di Davide Trentini.

Davide era malato di sclerosi multipla dal 1993. Aveva 53 anni e la sua vita, segnata da una salute progressivamente sempre più deficitaria, era diventata un calvario.

Per questo ha contattato Marco Cappato e poi Mina Welby al fine di poter comprendere come accedere alla morte volontaria in Svizzera.

Dopo vari incontri e dopo l’aiuto di Mina nello sbloccare alcune procedure burocratiche, la quale ha svolto anche il delicato ruolo di interprete in lingua tedesca con la medesima clinica elvetica, Davide ha ricevuto il cosiddetto “semaforo verde”.

È partito dunque per la Svizzera con Mina e con un servizio di ambulanza ignaro dei motivi del suo ultimo viaggio.

In un messaggio di saluto che ha voluto lasciare attraverso l’Associazione Luca Coscioni per spiegare e per rendere pubblica la sua decisione Davide ha detto: Basta dolore”“La cosa principale è il dolore, bisogna focalizzarsi sulla parola dolore. Tutto il resto è in più.

Come ha affermato Giuseppe Anzani, in una relazione sul tema: “Il criterio etico e umanistico che discerne l’uso o la rinuncia ai mezzi terapeutici è il principio di proporzionalità. Cosicché una stessa ipotesi di trattamento sanitario può secondo le circostanze di fatto essere proporzionata (e il suo rifiuto scivolare in una forma di eutanasia passiva), oppure sproporzionata (e il suo impiego costituire un accanimento terapeutico inammissibile).”[23]

Nel caso di Davide sproporzionato sarebbe stato continuare a vivere nelle sue condizioni, come lui medesimo ha infatti ritenuto insopportabilmente dolorose.

Così il 13 aprile 2017 in una clinica di Basilea, accompagnato da Mina Welby, ha scelto l’eutanasia, anche lui attraverso il suicidio assistito.

Il giorno dopo Mina Welby che gli era stata a fianco e d’aiuto nel viaggio insieme a Marco Cappato che aveva raccolto -attraverso l’associazione Soccorso Civile S.o.s. Eutanasia di cui fanno parte entrambi con Gustavo Fraticelli- i fondi mancanti per pagare la clinica Svizzera, si sono presentati presso la Stazione dei carabinieri di Massa per autodenunciarsi.

Anche in questo caso hanno messo in atto, come in quello di Dj Fabo, una disobbedienza civile volta a mettere sotto processo nuovamente l’art. 580 del codice penale, rubricato “istigazione o aiuto al suicidio”, che sostanzialmente vieta in Italia di dare aiuto all’atto di morte volontario e consapevole di un soggetto gravemente malato e senza possibilità alcuna di guarigione, consentito invece in Svizzera.

L’autodenuncia di Mina Welby e Marco Cappato ha dunque aperto un nuovo fronte processuale che mette in gioco la loro libertà: violare l’art. 580 del codice penale, infatti, significa poter essere condannati dai 5 ai 12 anni di reclusione.

Seppure la sentenza n. 242 della Corte costituzionale, sul caso Cappato / Dj Fabo, ha aperto a una nuova lettura dell’art. 580 del codice penale, essa non è estendibile ad altri casi facilmente.

Come abbiamo già visto, la Consulta con questa sentenza ha infatti dichiarato incostituzionale l’art. 580 quando la persona che è stata aiutata a porre fine alla sua vita: “sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli”; tuttavia lo stato di Davide Trentini non aveva precisamente le stesse condizioni scriminanti dettate dalla sentenza della Consulta che prendeva spunto dal caso Dj Fabo.

Marco Cappato e Mina Welby, quindi, affrontano l’ultima parte del processo Trentini di fronte alla Corte di Assise di Massa, con la novità della sentenza della Consulta, ma anche con l’importante differenza rispetto il caso di Fabiano.

Non sempre si può parlare di trattamento di sostegno vitale, dunque se non verrà corretta nell’esatta interpretazione da un nuovo pronunciamento della Consulta potrebbe comportare per Marco e Mina la condanna dai 5 ai 12 di carcere.[24]

Il 27 luglio 2020 Marco Cappato e Mina Welby sono tuttavia stati assolti dalla Corte di Assise di Massa dal reato a loro ascritto, ossia di istigazione e aiuto al suicidio di Davide Trentini, perché il fatto non sussiste quanto alla condotta di rafforzamento del proposito di suicidio (manca l’elemento oggettivo poiché la volontà del Trentini era pienamente e autonomamente predeterminata) e perché il fatto non costituisce reato quanto alla condotta di agevolazione dell’esecuzione del suicidio (manca l’elemento soggettivo).

Il Pubblico Ministero aveva chiesto 3 anni e 4 mesi di reclusione, una condanna nei minimi edittali e con il riconoscimento delle attenuanti, affermando in aula che: “Il reato di aiuto al suicidio sussiste, ma credo ai loro nobili intenti. È stato compiuto un atto nell’interesse di Davide Trentini, a cui mancano i presupposti che lo rendano lecito”[25]

Per arrivare a tale pronuncia di assoluzione la Corte d’Assise ha dovuto estendete il concetto di sostegno vitale, che era stato retto dalla Consulta quale requisito indispensabile per poter aiutare un paziente in fine vita a morire.

Specificano dunque i giudici che i trattamenti farmacologici e l’assistenza personale possono rientrare nel sostegno vitale, affermando dunque che esso non significhi esclusivamente essere tenuti in vita da una macchina.

Il riferimento della Corte Costituzionale a “trattamento di sostegno vitale”, alla luce della sentenza del 27.07.20, è infatti da intendersi come qualsivoglia trattamento sanitario, sia esso realizzato mediante terapie farmaceutiche sia con l’assistenza di personale medico o paramedico o, ancora, con l’ausilio di macchinari medici, laddove interrompendolo  ne derivi la morte del malato anche in tempi non rapidi.[26]

Proprio come nel caso di Davide, ove l’interruzione dei trattamenti sanitari cui era sottoposto ne avrebbe causato un decesso non immediato.

Ciò malgrado, ossia pur avendo la Corte di Assise di Massa preso una decisione pienamente conforme alla sentenza della Corte Costituzionale 242/2019, la Pubblica Accusa non si è astenuta dall’impugnare siffatta decisione.

Spetterà ora alla Corte d’Assise di Appello una nuova pronuncia.

 

LEGGE 22 DICEMBRE 2017, N. 219[27]

Si vuole concludere la seguente breve e non esaustiva trattazione sul fine vita, ricordando che in Italia l’unico “concreto” tentativo di progresso sulla problematica è stata “fintamente” tamponato dalla legge n.219/2017, anche nota come Legge sul Fine Vita o sul “testamento” biologico.

In breve si elencano i punti salienti della nuova disciplina, non tralasciando di svelare che oltre la disposizione relativa le D.A.T (Disposizioni Anticipate di Trattamento), che in verità già esistevano, seppure all’interno di una normativa meno coordinata[28], poco altro la suddetta legge ha apportato, se non innumerevoli righi talvolta contraddittori talaltra vacui e inconsistenti.

Brevemente riassumiamo, giusto da comprendere e apprezzare il tentativo del nostro paese.

 

  1. D.A.T. (art. 4)

Ogni persona maggiorenne, capace di intendere e di volere, in previsione di una eventuale futura incapacità di autodeterminarsi può, attraverso disposizioni anticipate di trattamento (D.A.T.), esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali.

Le D.A.T. devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata o per scrittura privata consegnata personalmente presso l’ufficio dello stato civile del comune di residenza. Nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. Con le stesse modalità sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento.

 

  1. FIDUCIARIO

Chi sottoscrive le D.A.T. indica una persona di sua fiducia (“fiduciario”) che ne faccia le veci e lo rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie.

Il fiduciario deve essere una persona maggiorenne, capace di intendere e di volere.

Il fiduciario può rinunciare alla nomina con atto scritto.

L’incarico del fiduciario può essere revocato.

Al fiduciario è rilasciata una copia delle D.A.T.

Nel caso in cui le D.A.T. non contengano l’indicazione del fiduciario o questi vi abbia rinunciato o sia deceduto o sia divenuto incapace le D.A.T. mantengono efficacia in merito alle convinzioni e preferenze del disponente.[29]

In caso di necessità, il giudice tutelare provvede alla nomina di un amministratore di sostegno.

 

  1. CONSENSO INFORMATO.

Nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata.[30]

Il consenso informato tra medico e paziente è espresso in forma scritta o, nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. [31]

Il consenso informato può essere revocato anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento, incluse la nutrizione e l’idratazione artificiali che, viene specificato nel testo, “sono trattamenti sanitari”,[32] in quanto “somministrati su prescrizione medica di nutrienti mediante dispositivi sanitari”.

 

  1. POSSIBILE OBIEZIONE DI COSCIENZA MA OSPEDALE DEVE GARANTIRE ATTUAZIONE D.A.T.

Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale (art. 1 comma 6).

Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali.[33] A fronte di tali richieste il medico non ha obblighi professionali quindi può rifiutarsi di dare corso alle D.A.T., tuttavia ogni azienda sanitaria pubblica o privata anche cattolica garantisce la piena e corretta attuazione dei principi della legge sul biotestamento.

 

  1. DIVIETO DI ACCANIMENTO TERAPEUTICO.

Nel caso di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati.

 

  1. TERAPIA DEL DOLORE E SEDAZIONE PALLIATIVA PROFONDA.

Il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico.

A tal fine, è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative.

In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente. Il ricorso alla sedazione palliativa profonda continua o il rifiuto della stessa sono motivati e sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.

 

Si precisa, fuori dall’analisi del testo normativo in questione, che la sedazione palliativa continua profonda non va confusa con l’eutanasia o il suicidio assistito.

Essa non porta alla morte del paziente, bensì ha il solo compito di ridurre o di abolire la percezione del dolore provato dalla persona.

Quest’ultima viene addormentata fino all’eventuale perdita di coscienza, pur rimanendo in grado di respirare autonomamente.

La somministrazione di questo tipo di sedazione – tramite infusione continua di un farmaco che consente di ottenere una riduzione intenzionale della vigilanza – è praticata in accordo con il paziente da un medico anestesista.

Nell’imminenza della morte, o a seguito del rifiuto o della revoca del consenso a un trattamento sanitario salvavita, la sedazione palliativa profonda può solo accompagnare il paziente eliminandogli i dolori.[34]

 

  1. MINORI

Il consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso o rifiutato dai genitori o dal tutore tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità e avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore. La persona minore o incapace ha diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione.

Deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacità per essere messa nella condizione di esprimere la sua volontà.

Nel caso in cui il rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata oppure l’amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (D.A.T.) o il rappresentante legale della persona minore rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare.

 

  1. D.A.T. DISATTESE IN CASO DI NUOVE TERAPIE.

Il medico è tenuto al rispetto delle D.A.T. le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico, in accordo con il fiduciario, qualora le D.A.T. appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita.[35]

 

  1. REGISTRO REGIONALE DELLE D.A.T.

Le regioni che adottano modalità telematiche di gestione dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale possono regolamentare la raccolta di copia delle D.A.T., compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando comunque al firmatario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove esse siano reperibili.

 

  1. NIENTE BOLLO E TASSE SULLE D.A.T.

Le D.A.T. devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata o per scrittura privata consegnata dal disponente presso l’ufficio di stato civile del suo comune di residenza che provvede a inserirlo in un registro dove istituito o presso la struttura sanitaria che poi la trasmette alla regione.

Le D.A.T. tuttavia sono esenti dall’obbligo di registrazione, dall’imposta di bollo e da qualsiasi altro tributo, imposta, diritto e tassa.

Le D.A.T. possono essere revocate con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico con l’assistenza di due testimoni in casi di emergenza e urgenza.[36]

 

In conclusione, seppure con il sistema della D.A.T. si è rafforzato il valore del consenso informato, dell’autodeterminazione e del rapporto medico-paziente, grazie cui si è riconosciuto ai pazienti un grado di dignità di cui non sempre gli stessi potevano beneficiare (che costituisce, comunque, sintomo di civiltà), è altrettanto vero che si tratta di novità assai distanti dalle pratiche di eutanasia dirette o indirette (che, probabilmente, il nostro sistema giuridico non è ancora pronto ad accogliere), né possono tradursi in interventi di suicidio assistito. Difatti, entrambi mantengono la loro illegittimità nello Stato italiano.

 

Dott.ssa Virginia Ferro

 

[1] Regio decreto 19 ottobre 1930, n. 1398, in materia di “Approvazione del codice penale.” Il codice penale italiano (noto come codice Rocco dal nome del suo principale estensore, il guardasigilli del Governo Mussolini Alfredo Rocco) è un corpo di norme in tema di diritto penale.

[2] Legge dell’8 marzo 2017, n. 24.

[3] La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

[4] La libertà personale è inviolabile [289 bis, 605, 606, 607, 608, 609, 630 c.p.]. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge [244, 245, 247, 249, 266 ss., 272 ss. c.p.p.; 118, 260 c.p.c.]. In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto [352, 354, 356, 380, 381, 384 c.p.p.].È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà [606, 607, 608, 609 c.p.].La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.

[5] Corte Costituzionale, Sentenza n°438/2008

[6] Trattasi di un approccio volto a migliorare il più possibile la qualità della vita di persone colpite da malattie inguaribili e delle loro famiglie, attraverso la prevenzione e il sollievo dalla sofferenza «per mezzo di una identificazione precoce e di un ottimale trattamento del dolore e delle altre problematiche di natura fisica, psicosociale e spirituale». (World Health Organization, National cancer control programmes. Policies and managerial guidelines, 2002, p. 84).

[7] http://www.dignitas.ch/index.php?lang=it

[8] https://www.ednh.news/it/fine-vita-i-paesi-europei-in-cui-e-legale-leutanasia-e-il-glossario/

[9]https://www.associazionelucacoscioni.it

[10] L’obiettivo della disobbedienza civile è quello di modificare i divieti del codice penale in Italia affinché venga finalmente approvata una normativa sul fine vita, conquistata in parte attraverso il riconoscimento delle garanzie costituzionali sull’autodeterminazione dell’individuo nella sfera sanitaria grazie all’attivazione della giurisdizione nei casi Welby ed Englaro e da ultimo con la legge sul testamento biologico, a partire dalla modifica dell’art. 580 del nostro codice penale.

[11]https://www.associazionelucacoscioni.it/il-caso-giuridico-di-piergiorgio-welby/

[12] Per la prima volta veniva affermato dalla Corte di Cassazione il principio con il quale si negò che nutrizione e idratazione artificiale fossero trattamenti di sostegno vitale: essi erano trattamenti sanitari che potevano essere sospesi o interrotti, alla stregua di qualunque terapia, allorché risultasse che la stessa era, ormai, futile o sproporzionata.

[13] https://www.associazionelucacoscioni.it/caso-giudiziario-eluana-englaro/

[14] Marco Cappato è un politico e attivista italiano, esponente dei Radicali e dell’Associazione Luca Coscioni. È tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, promotore del Congresso mondiale per la libertà di ricerca e della campagna Eutanasia legale

[15] Marco Cappato, dichiarazione resa nelle conclusioni del 17 gennaio 2018

[16] https://www.ilmessaggero.it/primopiano/cronaca/dj_fabo_eutanasia_incidente-2285025.html

[17] Il suicidio assistito è una forma di eutanasia, legale in Svizzera, dove a seguito di un iter strettamente regolamentato, e sotto controllo medico, la persona che ne fa richiesta autonomamente si somministra il farmaco, senza intervento di terzi.

[18] Marco Cappato è stato rinviato a giudizio perché, consapevole del divieto per la legge italiana, anche del solo aiuto al trasporto in Svizzera del malato che ne faccia richiesta, si è autodenunciato al ritorno in Italia mettendo in pratica una disobbedienza civile avviata con la associazione Sos Eutanasia soccorso civile, insieme a Mina Welby e Gustavo Fraticelli.

[19] Si era infatti pacificamente stabilito che l’intenzione di accedere al suicidio assistito fosse totalmente di Fabiano e che nessun altro avesse avuto modo di accentuargli o rafforzargli tale intento, anzi la compagna e la di lui madre per i primi mesi hanno invero cercato di distoglierlo invano da questo suo desiderio di andare in clinica in Svizzera. Marco Cappato entrerà nella vita di Fabiano tempo dopo, quando l’intento del medesimo era già pienamente configurato e consolidato.

[20] La Corte di Assise, mentre ha assolto per la parte di istigazione al suicidio Marco Cappato, perché il fatto non sussiste, avendo rinviato alla Corte costituzionale il giudizio sull’art. 580 del codice penale, ha sospeso il giudizio per il restante capo di imputazione, in attesa del responso della Consulta. Sia il Pm che la difesa avevano depositato nelle loro conclusioni delle memorie proponendo, in via subordinata alla richiesta principale di assoluzione, una questione di legittimità costituzionale relativa all’articolo 580 del codice penale che dunque è stata accolta.

Le udienze del processo si sono svolte l’8 novembre 2017 (affrontate le cosiddette questioni preliminari); il 4 e 13 dicembre 2017 (nella seconda e terza udienza sono stati ascoltati alcuni testimoni fra i quali la madre e la compagna di Fabiano. Inoltre è stato esaminato anche Marco Cappato, che alla fine delle sue risposte ha fatto una dichiarazione alla Corte); il 17 gennaio 2018 (nell’udienza sono state svolte le conclusioni del Pm e della difesa, inoltre ha preso la parola per ultimo l’imputato Marco Cappato che ha rilasciato una dichiarazione finale) e il 14 febbraio 2018 con la lettura dell’ordinanza da parte del Presidente della Corte di Assise di Milano che ha rinviato alla Consulta il giudizio di costituzionalità della norma

[21] La Consulta si è riunita il 23 ottobre 2018 per discutere la questione di costituzionalità dell’art. 580 del codice penale e si è pronunciata il giorno seguente con la decisione di sospendere il giudizio e di riconvocare una nuova udienza il 24 settembre del 2019, con il contestuale invito al Parlamento a intervenire entro quella data offrendo “la tutela di determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti”. Nell’inerzia del legislatore, dunque, la Corte si riunisce il 24 settembre per riaprire il giudizio di costituzionalità dell’art. 580 del codice penale. Senza un suo intervento, infatti, stante l’inerzia del legislatore, Marco Cappato ha rischiato dai 5 ai 12 anni di carcere per l’aiuto prestato a Dj Fabo. Con il dispositivo annunciato a seguito della udienza del 24 settembre 2019 la Consulta ha deciso che la condotta di chi aiuta al suicidio “non è punibile ai sensi dell’articolo 580 del codice penale, a determinate condizioni”.

In particolare non è punibile “chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli” (Comunicato Ufficio Stampa Consulta, 25 settembre 2019).

[22] Il processo, instaurato con la richiesta del giudizio immediato da parte dell’imputato, si è svolto secondo il rito ordinario davanti la Corte d’assise di Milano. La Corte d’assise è formata da 8 giudici: due togati e sei popolari. Gli otto giudici hanno decidono, all’esito del dibattimento, che Marco Cappato doveva essere assolto.

[23] https://www.uneba.org/wp-content/uploads/2018/12/Dat-relazione-anzani.pdf

[24] https://www.associazionelucacoscioni.it/notizie/blog/la-storia-davide-trentini-processo-mina-welby-marco-cappato/

[25] https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/10/01/fine-vita-pm-ricorre-contro-lassoluzione-di-cappato-e-mina-welby-sul-caso-trentini-la-corte-costituzionale-ci-ha-gia-D.A.T.o-ragione/5950769/

[26] https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2020/09/Sentenza-Massa.pdf

[27] La legge 22 dicembre 2017 n. 219, contenente «Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento»1, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 16 gennaio 2018, n.12 è entrata in vigore il 31 gennaio 2018, dopo il prescritto periodo di “vacatio legis”.

[28] Con la legge del 20 maggio 2016, n. 76 era già possibile esprimere una volontà analoga alle D.A.T. nonostante non venisse utilizzata la medesima terminologia. Cfr. https://giuricivile.it/legge-testamento-biologico/

[30] Sul punto, la nuova Legge nulla aggiunge rispetto alle modalità di acquisizione del consenso, ma evidenzia l’intento di consolidarne la disciplina, anche attraverso una valorizzazione del rapporto tra medico e paziente, di quella “alleanza terapeutica” che giustifica le “interferenze” del primo nella sfera soggettiva del secondo. Cfr http://www.salvisjuribus.it/la-legge-n-2192017-riconoscimento-di-un-diritto-a-morire/

[31] Le D.A.T. si possono inquadrare come un mandato in previsione dell'(eventuale) incapacità a contenuto non patrimoniale.

Il destinatario di tale mandato è il medico, nel contesto del rinnovato rapporto medico curante – paziente. Superato il vecchio modello paternalistico, ove il paziente, in un rapporto squilibrato, necessariamente asimmetrico, si affidava completamente al medico, sul presupposto che questi, in scienza e coscienza, fosse libero di scegliere la cura più adatta, si è affermata una nuova e diversa sensibilità per la quale, fermo restando che comunque il rapporto non potrà mai essere equilibrato perché il medico ha conoscenza ed esperienza che il paziente raramente potrà avere, il rapporto si svolge secondo il modello condiviso del consenso informato. Cfr.  https://www.bioeticanews.it/spunti-riflessione-merito-alla-legge-22-dicembre-2017-n-219/

[32] Risolvendo così, tardivamente, quella che era stata la problematica riguardante Eluana Englaro, dal momento che non le era concessa la sospensione della nutrizione e idratazione artificiale, in quanto allora non considerati trattamenti sanitari, dunque non potevano essere né interrotti né rifiutati. Nel 1999, il Tribunale di Lecco respingeva infatti la richiesta di Beppino Englaro di lasciar morire la figlia, poiché il supporto alla nutrizione (a differenza del respiratore artificiale che teneva in vita Piergiorgio Welby) non viene visto come una cura medica.

Beppino Englaro, ben convinto che Eluana non avrebbe voluto vivere in questo stato, nel 2003 presenta nuovamente la richiesta di sospensione dell’alimentazione artificiale per la figlia, che tuttavia, viene nuovamente respinta prima dal Tribunale e poi dalla Corte d’Appello, poiché non considerata “cura medica”.

Vediamo dunque come solo nel 2017 viene in aiuto una legge, la n. 219, volta a stabilire in modo chiaro e inequivocabile che l’alimentazione e l’idratazione artificiali sono cure mediche e come tali il paziente può rinunciarvi.

[33] Ciò significa che la legge in esame, ove rettamente intesa, non può contenere derive eutanasiche, perché il sistema Costituzionale, partendo dall’articolo 27, come modificato dall’articolo 1 della legge costituzionale 2 ottobre 2007 n. 1, che non ammette in nessun caso la pena di morte, ha dato tutela costituzionale alla vita ed alla sua indisponibilità. Cfr. https://www.bioeticanews.it/spunti-riflessione-merito-alla-legge-22-dicembre-2017-n-219/

[34] Prima dell’entrata in vigore della legge 219/2017 sul “biotestamento”, non tutti i medici erano convinti della possibilità di operare la sedazione profonda. Sebbene molti ne rintracciassero la possibilità all’interno della legge 38/2010 sulle cure palliative, la non espressa previsione all’interno di questa legge frenava alcuni medici dall’aiutare i propri pazienti attraverso la sedazione palliativa continua profonda. Cfr. https://www.associazionelucacoscioni.it/sedazione-profonda/

[35] Tale clausola (art. 4 co V) permette, con il consenso del fiduciario, al medico di disattendere le volontà del paziente, qualora le “ritenga palesemente incongrue ovvero non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita”.

La ratio di questa previsione è legata all’avanzamento della scienza nei campi della medicina che, oggigiorno, è sempre più rapida e imprevedibile. Nel lasso di tempo tra la dichiarazione e la perdita della capacità e possibile che vengano alla luce nuove tecniche in grado mi stravolgere gli esiti. https://giuricivile.it/legge-testamento-biologico/

Dott.ssa Virginia Ferro
Laureata in giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Pavia, il 14.02.2018,  con la tesi in diritto penale ed etica del diritto:”La differenza fra uccidere e lasciar morire”. Master di I livello in “Criminologia e psicopatologia Forense”, conseguito nel giugno 2018, presso la Salerno Formazione, società didattica. Attualmente tirocinante, ex art 73 dl 69/2013, presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Genova.